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Published on Febbraio 19th, 2016 | by Antonio Tortolano

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Sleepwalker in the Ocean: Megamusic intervista i Booze Island

Oggi su Megamusic vi proponiamo l’intervista ai Booze Island. Parliamo di una rock band del Basso Lazio che vede le sue radici nel lontano 1993 anche se il progetto vero e proprio si forma a partire dal 2001. Una girandola di elementi si alterna nel gruppo fino a trovare una propria fisionomia. E’ di qualche anno fa la sperimentazione del Poet Rock, un genere dove per ogni brano viene declamata una poesia corrispondente. Con l’ingresso nella band di Lidia Cerra e Pierpaolo L’imperio i Booze Island tornano al rock più puro…In questa lunga intervista ci raccontano la loro musica, l’impatto con il pubblico, la loro genesi, un pensiero sull’attuale stato dell’industria discografica e sui talent e di molto altro ancora…

Sleepwalker in the Ocean. Come nasce il vostro promo album?

Come band eravamo reduci da una stagione intensa di live. Avevamo composto nuovi pezzi che avevamo portato on stage ma senza mai registrarli. Poi l’avvicendamento del vocalist della band ci ha prima costretti e poi convinti ad entrare in studio per registrare quanto realizzato negli ultimi tempi, almeno in parte perché della ventina di pezzi del repertorio, tutto inedito ovviamente, abbiamo realizzato l’album con nove pezzi. In effetti i pezzi previsti erano 10 ma una traccia, “In all my born days”, si è persa nei meandri dell’editing. Un mistero ancora irrisolto…

 Siete soddisfatti del riscontro che avete avuto finora, soprattutto nei live?

Sinceramente ancora no. O meglio, prima di entrare in studio eravamo soddisfatti dell’interesse che si era creato intorno alla nostra band, le nostre esibizioni avevano suscitato interesse sia per i brani sia per la simbiosi tra la musica e la poesia, e si era creato un gruppo di nostri fan. Tra i vari live, indimenticabile il concerto al tramonto su di una duna di sabbia, in riva al mare sulla spiaggia di Sant’Agostino a Gaeta.
Tuttavia, dopo la registrazione dell’album non abbiamo ancora avuto modo di dimostrare tutto il nostro potenziale, realizzando solo brevi apparizioni in vari festival.

In realtà il nome Booze Island ha una storia datata 22 anni fa. Ci raccontate qualche aneddoto in più sulla vostra genesi?

Nel 1993 Gianni L’Imperio e Marco Meschino erano in tour come duo, chiamato Deja Vù. Suonavano prevalentemente cover, tra cui brani di Pino Daniele, Alan Parsons Project, AC/DC, Motorhead. Tra i vari “A me me piace o’blues”, “There gonna me some rocking” e “Don’t answer me”, spiccava un inedito composto originariamente con il basso. Il brano si intitolava “Booze Island”. Negli anni è stato stravolto e riprodotto in vari stili musicali, fino a quando il titolo è stato adottato come nome della band, ed il brano è stato rinominato “Sleepwalker in the Ocean”, da cui deriva anche il titolo dell’album. All’epoca eravamo in un’altra band ma paradossalmente, quando ci accorgemmo che i nostri brani inediti suonati on stage avevano un impatto incoraggiante, proprio “Sleepwalker in the Ocean” fu la scintilla che accese la nostra voglia di buttare giù tutte le idee e comporre esclusivamente la nostra musica.
Iniziò un percorso prima di composizione intensa, poi di esibizioni in duo, Gianni L’Imperio in voce e chitarra ritmica e solista, Marco Meschino alla tastiera, al left hand bass e controcanti. Ci accorgemmo che l’indissolubile matrice rock e la cura maniacale degli arrangiamenti dei nostri brani erano penalizzate dalla mancanza di ritmica e ci prodigammo per trovare musicisti che oltre ad essere tali, credessero nel nostro progetto di musica inedita, nel nostro sogno.
Alla batteria approdò da subito Salvatore De Cicco, un batterista che aveva già collaborato in passato e che, a parte un breve periodo dove fu sostituito dal fratello Alessandro, ha creduto subito in noi ed è tuttora un punto fermo della nostra band.
La collaborazione col vocalist Diego Sasso è durata un paio d’anni. In questo periodo siamo cresciuti come repertorio e ci siamo fatti conoscere in un giro più ampio. Dopo di lui Lidia Cerra che è adesso la nostra vocalist ed a seguire, abbiamo liberato finalmente Marco dall’ usare tre mani e due cervelli sul piano aggregando Pierpaolo L’Imperio al basso, cugino di Gianni.
Devo dire che la nostra band sembra un affare di famiglia. Infatti, tra gli altri musicisti che hanno suonato con noi per brevi periodi, c’è stato anche Giuseppe L’Imperio alla chitarra ritmica, fratello di Gianni. E il bassista e la vocalist sono convogliati a nozze nel settembre del 2014.
In tutto questo percorso, il brano “Booze Island” è diventato quasi spontaneamente prima il nome e poi l’emblema della band.

 L’approdo nel gruppo di Lidia Cerra vi ha portato al passaggio dal PoetRock al Rock più puro. Sarà sempre così o ci sarà una nuova contaminazione di generi?

Lidia è fantastica. Quando è arrivata nei Booze Island era un diamante grezzo, ora insieme ai vecchiacci sta crescendo di giorno in giorno acquisendo esperienza e convinzione nei propri mezzi. Non abbiamo dubbi che farà molta strada nel mondo della musica. Per il futuro, il futuro è il futuro, mai dire mai. Concentrandosi sul presente possiamo affermare che stiamo portando avanti il nostro stile musicale con coerenza, senza stravolgimenti. In effetti il nostro non è un rock puro ma è contaminato da noi stessi, dai nostri background musicali che inevitabilmente emergono sia in fase di composizione che di arrangiamento dei pezzi. Quando suoni in una band e fai musica tua, metti tutto il tuo stile nel brano, che magari è stato scritto da un altro componente e quindi lo interpreti secondo il tuo gusto, la tua tecnica sullo strumento, l’emozione del momento, senza ricorrere a schemi prefissati. Questo aspetto da un lato può limitare, perché probabilmente non si riesce a far decollare il pezzo in base alle sue potenzialità e si rischia di snaturarlo, ma dall’altro da un valore aggiunto dato dal fatto che un mix più o meno spontaneo di idee musicali aggregate in real-time a volte può dar vita a brani davvero interessanti. E’ un rischio che noi corriamo volentieri ogni qualvolta proviamo e, da quanto riceviamo in termini di critiche e feedback, con ottimi risultati, vista la eterogeneità musicale dei brani.

C’è un brano dei nove dell’album a cui vi sentite particolarmente legati e perché?

Si, “Dirty Ballast”. Perché ogni volta che lo suoniamo ci rendiamo conto che abbiamo alzato il limite del progressive senza snaturare la matrice rock che ci contraddistingue  e che nella musica tutto è possibile. Ascoltare per credere.

A che livello è, secondo voi, la scena rock, nel Basso Lazio?

Se per scena si intende l’insieme di band che suonano musica di propria composizione, e se per rock si intende l’insieme di musicisti che suonano live senza ausilio di basi e quant’altro, forse siamo messi male. E sul fronte dei live siamo messi ancora peggio; il giro di vite sul limite dei decibel e la recessione economica hanno prodotto da parte dei gestori di locali una sorta di selezione al contrario, dove non si privilegiano le qualità musicali ma si tende a far rientrare le performance in un budget limitato, ad avere band con pochi elementi e senza batteria, a proporre repertori facili e conosciuti per paura di annoiare il pubblico. Di conseguenza, la scena rock come vogliamo chiamarla, sta partorendo band sempre più esigue e adeguate alle esigenze del mercato e questo certo non aiuta il diffondersi di musica inedita.


Che tipologia di pubblico avete finora conquistato?

Direi un pubblico maturo, che conosce i grandi classici della musica internazionale, che apprezza il nostro stile che seppur contaminato da i più svariati generi musicali, riesce a mantenere una connotazione abbastanza originale. Il nostro pubblico non ci riconduce a nessuna band del passato, ma ci riconosce un’identità unica e coerente tra i vari brani. Ci stupiamo infatti di come chi ascolta i nostri vari brani, riconosce elementi riconducibili a band differenti, vuoi per il sound, per lo stile o per la struttura delle canzoni. Succede anche che diversi ascoltatori abbiano differenti reazioni ascoltando gli stessi brani. E questo di fatto è un riconoscimento allo stile Booze Island.

La crisi dell’industria discografica, meglio le major o le label indipendenti?

Premetto che noi prendiamo le briciole, perché siamo italiani e scriviamo in inglese.
Ma se dovessimo scegliere, sicuramente la major danno più affidabilità e rientrano nell’ottica di quello che una band cerca, cioè il lancio alla ricerca del successo. Purtroppo ad oggi le major azzardano poco, cercano prodotti di sicuro successo. Probabilmente ci saranno anche etichette indipendenti serie ma fino ad ora ci siamo autoprodotti proprio perché non convinti da progetti a metà, che non garantiscono sufficiente ritorno e che comunque richiedono sforzi finanziari oltre che artistici.

 Sui talent show qual è il vostro pensiero?

I talent show sono una grande invenzione e sarebbero una grandissima opportunità per cantanti e per una rock band come la nostra. Dovrebbero essere delle opportunità da perseguire. Purtroppo però sappiamo perfettamente che i talent sono controllati dai discografici. Chi ha talento ed arriva in fondo alle selezioni, non ha accesso ai format televisivi se non firma prima un contratto, con cui diventa “prigioniero”. L’industria discografica sfrutta la notorietà che da la tv e poi produce i più talentuosi, con il solo scopo di vendere. Album preconfezionati, brani scritti e arrangiati per essere orecchiabili, canali radio a piena disposizione, comparse agli eventi “in”, tour organizzati ad hoc. Quando l’artista è spremuto all’osso, viene lasciato a se stesso e se non ha spessore individuale, sostegno finanziario alternativo, se non ha capacità di comporre ed arrangiare, è finito. Quanti vincitori di talent show, poi protagonisti anche di rassegne importanti come il Festival di Sanremo, sono letteralmente spariti dalla scena musicale? I talent show dovrebbero essere una vetrina in cui mettersi in mostra, un palco dove lanciare il proprio grido musicale che per anni è rimasto underground, non il cinico business musicale che in realtà sono.

Quali sono state le vostre influenze artistiche?

Beh, direi che siamo un gruppo eterogeneo come background di studi e percorsi musicali ma che comunque condivide la passione per la grande musica anni 70\80, nei vari generi che l’hanno contraddistinta sia a livello internazionale che in Italia.
Di conseguenza la nostra musica è un mix di tutto ed un mix di niente. Non ci poniamo limiti ed amiamo miscelare gli stili e i ritmi divertendoci come dei matti ma sempre puntando all’obiettivo principale di chi compone musica; il brano deve essere piacevole da ascoltare. Mantenere questo equilibrio tra l’orecchiabilità della canzone e la sua non banalità, credo possa essere definito il nostro marchio distintivo.

Progetti futuri dei Booze Island?

Stiamo preparando un concerto come lancio del disco; sarà una sorpresa, spero gradita ai nostri fan. Ci manca solo la “location” giusta. L’intento è quello di proseguire con i live fino al prossimo autunno, quando torneremo in sala per la registrazione del nostro secondo album. E come primo brano non potremo che registrare “In all my born days”, il brano del primo album misteriosamente smarrito!

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Nato a Cassino, ai piedi della celebre abbazia, sono cresciuto con la passione per lo sport e per il giornalismo. Roma prima e Milano poi mi hanno accolto per farmi compiere il salto di qualità. Lavorare in tv e per la carta stampata non mi bastava più e allora dal pallino per la rete ecco nascere lospaccatv, megamusic e lamiaradio, tre magazine online di cui vado fiero...



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